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mercoledì 3 agosto 2011

Recensione di Cinzia Baldazzi sulla poesia " Mi manchi "

Mi Manchi di Giovanni Gentile

Recensione by Cinzia Baldazzi

“Mi manchi stasera/questa sera senza stelle/senza luna”. L’amore è lontano, Giovanni, eppure il dolore della mancanza si determina solo in virtù di assenze in un paesaggio, in un panorama altrettanto caro, con stelle remote e luna oscurata. “Il profumo dell’oleandro/ il rumore delle onde/…tutto infierisce/ e ferisce”: soffro mentre parlo e ascolto la tristezza in me e nel mondo circostante in una sorta di procedimento rovesciato. Non è osservando gli oggetti e le immagini vicine che scorgo e ricostruisco ricordi e rimpianti; piuttosto, è la storia naturale delle cose e la sua dinamica a travolgere, a infierire sui sentimenti (“come lama mi attraversa/porta via pezzi di carne/e di vita che corre via) in procinto di essere ogni volta inghiottiti in uno sconforto finale e totale, l’unico in grado di giustificarli.



I poemi amorosi, dalle origini della civiltà, lottano contro la morte, anelano all’infinito dell’anima, degli affetti, entrando in misura antagonista e utopica a combattere contro la logica finale e temporanea della natura. Tuttavia, anche in “Mi manchi” un tal genere di dialogo non è strozzato, né risulta un processo di ininterrotta sconfitta evocata per farla tacere, per indurla al silenzio confondendola con il resto. È invece un coinvolgente e misterioso colloquio a voci distinte ad animarsi nella poesia, afflitta anche se non disperata, dal ritmo articolato con cura proprio all’interno dello scambio dialettico di prospettive, di narrazione tra chi ama, la persona amata, e l’eco dell’ambiente di luci e ombre elaborato con notevole efficacia simbolica.

È come se l’autore svelasse qualcosa che noi tutti teniamo in particolare a non condividere con altri, oppure rinunciamo con rammarico a tenere segreta e celata. Insomma il ”doppio registro” che Carlo Bo pensava appartenesse di diritto all’esistere, all’esperienza di ognuno, alla maniera di medaglia: due facce della nostra interiorità indicata da Giovanni Gentile, da una parte nell’“aria stantia del ricordo/si appiccica”, dall’altra quando “scorrono veloci le lancette/il ticchettio martella la mia testa”. Ebbene, leggendo il brano, per un certo margine appare illuminante ciò che si è trovato – nel tempo – a essere invalidato o alterato dalla morte, dall’abbandono: i legami, gli ideali, i contributi a poco a poco trasformati nelle stagioni sino a divenire, a fatica, riconoscibili. Non li abbiamo però dimenticati, rimangono infatti attaccati al modo di sentire e intendere le relazioni connesse ai valori durevoli, persistenti. Nondimeno i segni della sofferenza, il peso delle successive delusioni sono stati trasferiti in contesti ulteriori: nella “vita che corre via/ lontano da me”.

Sul versante opposto del messaggio, viaggiano le forme della sfera reale (procedimenti del cuore e criteri della ragione), attive e operanti insieme a quanto del trascorso ha potuto sopravvivere: è “la parte nobile dell’esistenza”, diceva Bo. Sono convinta sia indispensabile un grande coraggio, un preciso intento di riformulazione di princìpi per affermare “che non ci sei più/che non ti sento più” anche se “ogni sera/mi manchi”.

Ritorna l’”Odi et amo” del Carme 85 di Catullo, un distico elegiaco insuperabile, tra i luoghi semantici più diffusi della letteratura mondiale: “Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris./Nescio, sed fieri sentio et excrucior”. (“Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile;/non so, ma è proprio così e mi tormento”, trad. Salvatore Quasimodo). A dire il vero, gli studiosi ricordano come, circa 500 anni prima, Anacreonte avesse suscitato questa straordinaria convivenza di contrari nel celebre Frammento 46, un dimetro giambico così risolto: “???? te d??te ???? ????,/?a? µa???µa? ??? µa???µa?”. (“Amo di nuovo, non amo/e folle sono, non folle”, trad. Bruno Gentili). Quasi a suggerire, superando le convenzionali e comode consuetudini legate al richiamo eluso di amori perduti, come nostalgia e rimpianto possano confondersi tra sensazioni miste o sfocate insieme ai vincoli indotti dal destino a essere lasciati indietro pur avendo costituito un momento essenziale della vita affettiva e oltre. È il bagaglio poi consegnato intatto dalla produzione ermetica alle intenzioni di significato e stile della poetica contemporanea.

A proposito di Mario Luzi, considerato tra i maggiori difensori dell’ermetismo, rispetto agli iniziali rapporti che ebbe con tale corrente letteraria, un critico dell’epoca scrisse: “inseguiva continuamente il suo oggetto e rimandava le sue certezze”, e non perché non ne avesse maturate. Sono convinta preferisse evitare di stabilire alcunché di definito nel timore di perderlo in un passato che il futuro sempre imminente della poesia avrebbe tradito.

Giacomo Debenedetti, analizzando il ruolo di Luzi nello sviluppo del ‘900 letterario, costruiva un’ipotesi utile a entrare nel cuore della poesia d’amore dei nostri tempi, e in particolare in quella di Giovanni Gentile. “Le certezze”, affermava, “se noi vogliamo continuare a servirci dei termini rimbaudiani… derivano dal recupero, dal ripristino di una identità di Io con Io. Io si riconosce come se stesso, si ritrova con se stesso, non ha più bisogno di essere un altro”.

La passione d’amore in versi, apice dell’esperienza umana, induce a inoltrarsi in territori oscuri nei quali si nascondono i messaggi più profondi dell’esperienza: conduce dunque alla scoperta del Sé, dell’Io, al potenziamento massimo nella percezione di pienezza e soddisfazione congiunta alla voluttà; o al suo annullamento, a causa della lontananza e della conseguente perdita di sostanza dell’intera vita.

A ben vedere, già nella poesia antica – almeno nel repertorio classico citato – la capacità di amare era fondamentale per sperimentare i meccanismi basilari di identificazione del Sé: amando, il poeta latino o greco penetrava nella propria personalità e la comunicava. Nella tradizione cortese medievale l’amore si trasfigurava nell’impeto che bruciava gli amanti e li separava: le dimensioni della passione – presunta eterna – li sovrastavano in quanto umanamente troppo alte, irraggiungibili, se non attraverso la pura astrazione (perlopiù religiosa). Nella lirica contemporanea esplode l’aspetto intimo, immediato, terreno, e quindi accessibile, della pulsione trasformata in conoscenza, in strumento rivelatore della coscienza.

Giacomo Leopardi, uno degli iniziatori della poesia d’amore moderna, per mezzo di preziose scelte tecnico-semantiche riformula nel romanticismo, movimento in Italia prettamente militante e positivo, la predominanza di tale genere nella lirica classica e neo-classica, proprio perché riesce a caricare il pensiero-sentimento dominante (il legame concreto con la donna amata) di un alto margine di speculazione teorica: da tempi immemorabili, nel vivere la passione l’uomo sfiora il desiderio insopprimibile di infinito, di assoluto, implicito nella volontà di renderne eterno lo svolgimento, e l’impossibilità di concluderlo non provoca una frustrazione mistificatoria bensì un’elegia finalizzata a suscitare una specie di tramite operativo tra la materia tanto sospirata e la sua penosa negazione. Il “profumo dell’oleandro”, del ricordo, “ferisce/come lama mi attraversa/porta via pezzi di carne”, ma non precipito nella negazione del mio essere e sentire: mentre la vita “corre via/lontano da me/lontano da te”, rimango qui ad aspettare.

Giovanni Gentile si muove tra previsioni e metafore indirizzate a svelare o lasciare intravedere rappresentazioni distanti e per natura riformulabili, poiché riferire certezze di riflessione ed emozionalità comporterebbe una unità di intenzioni estranee: la certezza del credere valide e riproponibili virtù confinate in circostanze avvenute e non traslate nell’attualità, implicherebbe il recupero di un’identità autoritaria che sacrifica a priori le possibilità, scrivendo, di stupire e scoprire. “Il rumore delle onde/… arriva fino qua”, e mentre sciacqua via le tracce superate, le lava nell’acqua presente; l’infrangersi sulla riva, il rifluire della risacca, avvertono del ricambio senza vanificarlo nell’indistinto. Il poeta è lì a enunciare, a interpretare nella vita che corre via il colore e il senso dei nostri anni: in tale modifica e conferma, a tutti personalmente tocca un frammento della sua poesia di nostalgia e rigenerazione.

Inquietante e ambivalente considero la scelta di evidenziare il territorio, lo spazio narrativo, in un ambito marino, forse di vita balneare, relativo soprattutto alla gioventù (“afa d’agosto”) e ancor più al risveglio primaverile (“le tiepide sere di primavera”), alla solennità della gioia di vivere, dell’amore della libertà svincolata dalle costrizioni del codice stabilito nei rapporti sociali. A passi brevi, la nostalgia e il rammarico della felicità perduta, sul piano formale giungono a scolorire in queste sfumature di stagioni liberatorie: per forza di cose, la loro essenza e facoltà di offrire riproposizioni – sia pure gioiose, edificanti rispetto alla norma – viene limitata da riferimenti superiori, dall’umanità al chiuso e al freddo dei sogni, delle prospettive, purtroppo sempre maggiori dell’attuabile.

Cosa manca, Giovanni? I versi, il messaggio, cosa invitano a potenziare in noi? Con la poesia è consentito voltarsi a contemplare il chiarore della sera sotto il sole accecante di una mattina estiva, ma la tua esperienza non sembra possa esaurirsi in una simile tensione, orientata com’è a schiarire il compiuto attraverso i raggi di lettura delle condizioni concrete, attive. Suppongo tu intenda arrestare, o almeno sospendere, l’auspicio di una lirica commemorativa o celebrativa – sia di dolore sia di felicità – per conservarla interna a un complesso percorso di interpretazione fondato sulle contraddizioni della realtà trasmesse nel tessuto stesso delle analogie, una antagonista dell’altra, lungo un sentiero figurativo aspro, facilitato da un’andatura ritmica molto musicale, contrapposta all’individualismo lirico in chiave di schietta attitudine meditativa e riflessa, testimonianza del passato. Solo quando, però, parla nel e per il presente.

Cinzia Baldazzi



Mi manchi

Mi manchi stasera
questa sera senza stelle
senza luna.
L’aria stantia del ricordo
si appiccica
come afa d’agosto
e tu mi manchi.
Scorrono veloci le lancette
il ticchettio martella la mia testa
e non penso ad altro.
Le tiepide sere di primavera
il profumo dell’oleandro
il rumore delle onde
che arriva fino qua
tutto infierisce
e ferisce
come lama mi attraversa
porta via pezzi di carne
e di vita che corre via
lontano da me
lontano da te
che non ci sei più
che no ti sento più
e che stasera
come ogni sera
mi manchi.

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